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Ogni essere vivente emette flussi di fotoni. Ne esistono tuttavia di minuscoli per i quali la luce - sprigionata da una sostanza chimica, la luciferina - è parata nuziale, danza d'amore. Un grappolo di cinquemila lucciole produce a malapena il chiarore di una candela. Eppure quella fragile grazia, quel volteggio fosforescente che punteggiano il buio si sono prestati a considerazioni apocalittiche. "Darei l'intera Montedison per una lucciola", scriveva Pasolini nel 1975. Una fascinazione antica, la sua, che risaliva agli anni della guerra, quando osservava estatico "una quantità immensa di lucciole, che facevano boschetti di fuoco dentro boschetti di cespugli". La loro scomparsa gli appariva come un genocidio culturale, l'ultimo crimine di un nuovo fascismo peggiore del precedente: il neocapitalismo, con il suo fulgore artificiale, abbacinante. Da allora parlare di lucciole equivale ad alludere, per via di metafora, ai tratti del mondo umano che rischiano di eclissarsi di fronte all'avanzata irreversibile della stereotipia sociale. Corrono pericolo "uomini-lucciole", "parole-lucciole", "immagini-lucciole", "saperi-lucciole". Ma sono davvero condannati ad andare perduti? Nel suo libro, Georges Didi-Huberman coglie ciò che la disperazione impedì a Pasolini di vedere: che la barbarie non procede senza intoppi; che mettere avanti la rovina del tutto oscura i barlumi che resistono malgrado tutto; che chiudersi nel lutto per l'arcaico paralizza l'intelligenza del presente.